L’essere umano è in continua evoluzione e crescita. Le fasi della vita di ognuno di noi sono tappe in cui affrontiamo gradualmente eventi nuovi e una parte molto importante la sperimentiamo nella coppia. Stare in coppia, infatti, è un’esperienza edificante perché ci mette di fronte a situazioni inedite e ci sfida ogni giorno. Proprio per questo diventa urgente concentrarsi sulla coppia e sul ciclo vitale, per capire come influenzi i nostri comportamenti e ci spinga a un miglioramento costante. 
Partendo dal presupposto del modello sistemico, possiamo considerare la coppia come un sistema che ha un suo equilibrio interno e subisce continue sollecitazioni dall’esterno. Queste pressioni riducono l’equilibrio della coppia, che deve sforzarsi di reagire allo stress tra un istinto di conservazione e uno di evoluzione. Rimanere come prima per paura di cambiare, o cambiare assetto per provare a rendere migliore il rapporto?
Quando queste pressioni non vengono gestite, possono dar luogo a dei conflitti. Perché il conflitto non porti a una crisi, è fondamentale che la coppia introduca un cambiamento, per ritrovare l’equilibrio.

Quando la coppia può andare in crisi?

I conflitti nella coppia possono essere di varia natura e spesso coincidono con le diverse tappe della vita di ogni individuo, oltre che con la fase del ciclo vitale della coppia. Ripercorrendone le fasi, si possono individuare i conflitti più frequenti legati alle singole tappe. Vediamo quali sono.

Il giovane adulto

L’inizio dell’età adulta segna il momento in cui una persona giovane passa da una situazione di dipendenza dai genitori a una di maggiore autonomia e indipendenza. In questa fase spesso si sviluppa una tendenza a volersi distaccare velocemente dal nucleo familiare, per dare spazio a nuove relazioni compresa quella amorosa. La sfida qui è trovare un equilibrio tra il distacco dalla famiglia e le nuove relazioni che diventano parte sempre più consistente della vita.
Il giovane adulto forma una coppia con un’altra persona, ma spesso non si è ancora completato il processo di individuazione, cioè il giovane non è ancora riuscito a trovare la sua dimensione autonoma e indipendente. Per questo avrà ancora bisogni da figlio, possiamo dire infantili, che non potranno essere soddisfatti dall'altra metà della coppia. L’altro partner, infatti, non sarà in grado di poter soddisfare il bisogno di attaccamento e appartenenza che ancora caratterizza il giovane adulto. Il conflitto nasce a questo punto e spesso accade che le coppie in questa fase della vita entrino in una crisi che non sono in grado di superare. Quando questa crisi è superata, significa che la coppia insieme fa un percorso di crescita che permette a ognuno degli individui di affermarsi come autonomo rispetto alla sua famiglia di origine e far crescere, di conseguenza, la coppia.

La coppia stabile

Siamo nella fase in cui si stabilisce una coppia stabile, in cui il compito evolutivo è non più quello relativo all’individuazione, ma ai confini della coppia rispetto ai sistemi di provenienza. La tendenza generale è quella di un bisogno di allontanamento dell’uomo dalla sua famiglia di origine, mentre al contrario, la donna propende per stringere maggiormente il rapporto con la propria. Ogni membro della coppia può delegare all’altro la soddisfazione del bisogno opposto, che però non può accadere. Ognuno è infatti in grado di regolare l’allontanamento o meno dal proprio nucleo familiare originario, ma non può farlo con la famiglia dell’altro. 
In questo caso il conflitto può quindi riguardare la rinegoziazione del rapporto che ogni membro della coppia ha con il suo sistema di appartenenza originario. Riuscire a trovare una distanza equilibrata in questa fase, è il compito evolutivo della coppia e le garantirà maggiore stabilità.

Nasce un figlio

Questa fase è molto complessa perché comprende un cambiamento molto importante. Il sistema da coppia passa a triade, in più la madre e il bambino costituiscono un sottosistema già dalla gravidanza. La coppia qui ha un compito importante: assumersi nuove responsabilità e assicurarsi che questo sottosistema non diventi un sistema a se stante. Il rischio che l’uomo si senta escluso dal rapporto madre-figlio è, infatti, molto alto. Anche la madre può, di conseguenza, sentire un senso di solitudine nell'affrontare la nascita e la crescita senza un apporto significativo del padre. Ne derivano ulteriori implicazioni legate alla gestione sessista della genitorialità e delle responsabilità che riguardano l’intero nucleo familiare. Se questo stress viene espresso dalla coppia può portare a una rottura, se madre e padre non sono in grado di assumersi le responsabilità adeguate, innescando un cambiamento.

La coppia con figli adolescenti

I figli in età adolescenziale sottopongono la coppia a delle grandi prove. Le dinamiche che si instaurano nella famiglia ruotano attorno alla permanenza o meno dei figli nel nucleo familiare. Se i genitori spingono i figli a uscirne, i figli tenderanno a voler restare; al contrario, se i genitori vogliono trattenere i figli, questi avranno la tendenza a volersi allontanare. Naturalmente questo crea una frustrazione che dal rapporto genitori - figli passa alla coppia. Ulteriore elemento di instabilità può derivare dai genitori della coppia, che essendo in età avanzata, si aspettano cure e premure dai figli, mettendoli sotto pressione. La coppia può quindi sentirsi caricata di responsabilità da una parte – i figli – e dall’altra – i genitori – sentendo di non avere più spazio per la propria crescita e realizzazione personale e di coppia. Gestire questo equilibrio è operazione delicata e di grande consapevolezza, unica via che permette alla coppia di non essere schiacciata dalla pressione di una delle parti o da entrambe. Per farlo deve fermarsi, mettere a fuoco il problema e discuterne, capire come affrontare insieme le difficoltà e mettere in atto un cambiamento e una rinegoziazione degli equilibri dove necessario.

I figli escono dal nucleo familiare

Questa fase può coincidere con depressione e senso di smarrimento. Viene chiamata anche sindrome del nido vuoto. I genitori si ritrovano da soli, con tempo a disposizione e in questa fase cominciano ad affrontare i problemi reali, cioè quelli che hanno cause evidenti e non derivanti da motivi diversi rispetto alla manifestazione del problema. Questi problemi si manifestano dopo essere stati rimandati e accantonati negli anni. In realtà quindi, si rivelano essere problemi con origine nel passato e non causati dalla situazione contingente. 
Può succedere che la coppia stenti a riconoscersi, che ognuno vada avanti da solo e porti avanti la coppia per inerzia, senza però trarne felicità o appagamento. In questo caso il compito della coppia è affrontare questi problemi e ridurre il conflitto, per dirigersi insieme verso i tratti finali della vita, sicuri di avere l’appoggio l’uno dell’altro.


Il percorso di aiuto e crescita più lungo ed efficace

La vera difficoltà in tutte le fattispecie elencate è sempre la stessa: la coppia spesso non è incline a fermarsi, prendersi del tempo e parlare apertamente del problema che la affligge. Se questa continua rinegoziazione sugli equilibri, sulle esigenze e punti di vista non viene fatta durante tutto il percorso, i problemi si sommeranno l'uno sull'altro. Un po' come fa una valanga che si ingrossa sempre più mentre scivola giù per la montagna, così faranno i problemi della coppia se non gestiti di volta in volta. Il rischio è, infatti, quello di arrivare a un punto tale in cui non si capisca nemmeno più da cosa sia partito il conflitto e quindi la coppia non è più in grado di recuperare, facendosi travolgere dalla valanga. 
Alla luce di tutte le criticità che abbiamo elencato, è comprensibile come mantenere un equilibrio in coppia sia un vero percorso a ostacoli. Riuscire a farlo tutto fino in fondo è faticoso, ma incredibilmente soddisfacente. Anche urtando qualche ostacolo o inciampando, riuscire a rialzarsi e continuare la strada, è da considerarsi come il più grande percorso di crescita personale che possiamo intraprendere. Confrontarsi con il partner, essere disposti a mettersi in gioco e cambiare degli elementi di sé per il bene della coppia e della famiglia, è la più grande conquista per un essere umano, è (forse) la vera chiave per la felicità.

 

Ciò che determina la personalità di ognuno di noi ha molto a che fare con il nostro passato. Più specificamente con le nostre esperienze, tra le quali hanno particolare importanza quelle fatte nei primi anni di vita. In questa fase, infatti, i legami che si sviluppano nel nucleo familiare, specialmente con la madre, determinano i cosiddetti stili di attaccamento. 
Gli stili di attaccamento condizionano il nostro stare al mondo da adulti, il modo in cui ci relazioniamo agli altri e ai partner. Perciò counselling e mediazione familiare li ritengono importanti e utili nell’intervento di aiuto ai clienti.
La teoria dell’attaccamento nasce dagli studi di Edward John Mostyn Bowlby, psicologo e medico inglese. Nel 1940 il suo articolo “The Influence on Early Environment in the Development of the Neurosis and the Neurotic Character”, è il fondamentale apripista per i suoi lunghi studi. Bowlby dedica la sua intera vita professionale a studiare come nel rapporto con la propria madre nei primi anni, ogni adulto può trovare le risposte ai suoi comportamenti nel resto della sua vita. 
Concentrandosi sulla separazione tra madre e bambino, prosegue nello studio dei bambini in condizioni disagiate, per avvicinarsi all’etologia tramite gli studi di Lorenz sull’imprinting (1966) e di Harlow sulle scimmie (1958). I risultati degli studi sulle scimmie danno a Bowlby alcune conferme: i cuccioli di scimmia risultano più propensi a cercare un surrogato della madre tramite il contatto e il calore piuttosto che tramite l’offerta di cibo. L’attaccamento di un piccolo alla madre non è quindi determinato dalla necessità di cibo, ma è un legame affettivo da considerare come un bisogno primario. 
In collaborazione con Mary Ainsworth, Bowlby conduce molti studi e introduce i concetti di attaccamento e caregiver (colui/colei chi si prende cura del bambino) come base sicura: i genitori devono rappresentare per i figli una base sicura da cui i figli possano partire per esplorare il mondo, sapendo di poter contare sempre su di essa e farci ritorno.

Il modello operativo interno

Nel 1982 Bowlby introduce il concetto di modello operativo interno (MOI): una rappresentazione interna del sé e di ciascuna figura di attaccamento e le loro interazioni. Questi modelli aiutano a dare significato alle prime esperienze interpersonali e funzionano come base per elaborare le esperienze che ogni essere umano farà con gli altri crescendo. 
Bowlby ci dice che ognuno di noi regola il proprio comportamento in base alle aspettative formate nell’esperienza di relazione avuta con chi si doveva prendere cura di noi. Interiorizziamo, quindi, una serie di meccanismi di comportamento che diventano per noi come un pilota automatico. Naturalmente ciò non significa che questi modelli siano scolpiti nella pietra e insostituibili nel corso della nostra vita. Al contrario, possiamo affiancarne diversi e il nostro compito evolutivo è proprio quello di essere capaci di metterne in atto dei nuovi, utili per noi.

 

La “situazione insolita” e gli stili di attaccamento

Mary Ainsworth, la collaboratrice di Bowlby, sviluppa una situazione sperimentale basata sulle teorie elaborate. L’esperimento viene chiamato “strange situation”, letteralmente “situazione insolita”. Sottoponendo dei bambini a dei test in 8 episodi, l’esperimento ha consentito agli studiosi di stilare una lista dei 4 principali stili di attaccamento. 
L’importanza di riconoscerli risiede nel poter capire quale tipo di comportamento metteranno in atto questi bambini nella costruzione delle relazioni future.
Vediamo quali sono. 

Stile sicuro

Lo stile di attaccamento sicuro è quello che sviluppa un bambino che ha una madre, o una figura di riferimento (caregiver) che si dimostra presente, accudente ma disposta a fargli sperimentare se stesso nel mondo. Il bambino si dimostra in grado di utilizzare il genitore come base sicura da cui partire all’esplorazione dell’ambiente. Protesta quando si separano, ma quando si rincontrano il bambino è felice di vedere il genitore e nel mentre non ha avuto difficoltà a mettersi in relazione con estranei. Si sente degno dell’amore del genitore, sa che può esprimere anche il suo disagio ed essere confortato, perché l’altro è affidabile e accogliente.
Come sarà da adulto? Avendo sperimentato fiducia e presenza, sarà sicurò di sé, pronto a sperimentarsi ed esplorare il mondo e riconoscere i propri bisogni. Il modello che avrà di sé sarà positivo e così anche dell’altro, per questo si sentirà libero di mostrare le proprie emozioni e gestirà le relazioni con gli altri in base a questi modelli di comportamento.

Stile insicuro-evitante

Lo stile di attaccamento insicuro-evitante è tipico del bambino con una madre (o un caregiver) evitante e poco accogliente nei confronti delle sue richieste. Ha quindi sperimentato poca presenza o addirittura irritazione o rabbia quando si avvicina al genitore, perché questo non ha intenzione di occuparsi di lui ogni qual volta ne ha necessità. Per questo non manifesta turbamento al distacco dal genitore, anzi quasi indifferenza e allo stesso modo si comporta quando il genitore ritorna. Rimane concentrato sui suoi giochi o comunque su ciò che sta facendo, sperimentando una sorta di autonomia forzata. Il bambino così impara a non esprimere le proprie emozioni perché sa che non sono accolte dal genitore, rinuncia alla figura di riferimento. Si rende autonomo in maniera troppo precoce rispetto al suo processo evolutivo. 
Come sarà da adulto? Sarà un adulto distante sia sul piano fisico che emozionale. Avrà un modello di se stesso positivo, perché ha fatto esperienza di contare fin da subito su se stesso, ma un modello dell’altro negativo. Sarà una persona che non cercherà il conflitto, perché tenderà a evitare un coinvolgimento su ogni piano. Non sarà in grado di esprimere correttamente le proprie emozioni e riconoscere i propri bisogni.

Stile insicuro- ambivalente

Lo stile di attaccamento insicuro-ambivalente è proprio del bambino che ha sperimentato l’ambivalenza dal genitore. Una madre (o caregiver) che risponde alle sue richieste talvolta soddisfacendole, altre volte non risponde rendendosi indisponibile. Il senso di disorientamento generato nel bambino deriva dal fatto che non sa se e quando potrà utilizzare il genitore come base sicura. Al distacco col genitore è inconsolabile ma al contempo è resistente nei suoi confronti quando questo, per esempio, lo abbraccia o cerca di prenderlo in braccio. L’equilibrio tra attaccamento ed esplorazione è molto confuso in questo bambino, che mette in atto meccanismi di resistenza anche quando il genitore si dimostra disponibile. Il fatto che il genitore si dimostri poco chiaro e univoco nei suoi atteggiamenti, naturalmente gli rende molto difficile comprendere quando possa sentirsi accolto e quando rifiutato. 
Come sarà da adulto? Insicuro, incostante, non avrà fiducia nell’altro. Avrà una visione di sé negativa e anche dell’altro. Sarà caratterizzato da grande possessività, dipendenza e alta conflittualità. Sarà ansioso e con autostima bassa e si sentirà spesso giudicato dagli altri; per questo cercherà in loro approvazione e attenzioni.

Stile disorganizzato

Lo stile di attaccamento insicuro-disorganizzato è proprio del bambino che fa esperienza di un caregiver che non abbia risolto alcuni problemi. In particolare traumi o lutti, che ancora causano forte turbamento nel genitore che è estraniato, manifesta sempre paura, dolore, collera improvvisa. La mente umana ha scarse capacità di dare significato ai segnali che scaturiscono dal dolore di un lutto o di un trauma. Il bambino quindi non riesce a decifrare i comportamenti del genitore, in base alle sue reazioni imprevedibili si sente in modi diversi: una vittima impotente, o addirittura un salvatore del genitore debole e vulnerabile. Questo stile di attaccamento è molto complesso, proprio per la complessità del comportamento del genitore che genera una grande confusione nel bambino. 
Come sarà da adulto? Sarà probabilmente incline a sviluppare relazioni amorose patologiche. Sarà in parte vittima e in parte carnefice, confuso, incontrollabile e negativo. Avrà spesso sbalzi di umore e perfino episodi di autolesionismo.

Oltre ai 4 stili già classificati, se ne può individuare un altro. La lunga esperienza del fondatore e direttore scientifico di Mediare, Franco Pastore, gli ha permesso di tracciare i contorni dello stile di attaccamento più contraddittorio di tutti, quello privo di organizzazione.

Stile privo di organizzazione

Lo stile di attaccamento privo di organizzazione è quello che il bambino sviluppa in un ambiente fortemente contraddittorio. Similmente a chi sviluppa uno stile disorganizzato, il bambino vive in un ambiente in cui fa esperienza di forti contrasti e scarsa affettività da parte del genitore. Vive completamente disorientato e in grande contraddizione con gli altri e con se stesso.
Come sarà da adulto? Sarà fortemente contraddittorio in tutti i suoi comportamenti. Nel giro di pochi istanti sarà in grado di comportarsi in modo del tutto incoerente con quanto ha appena affermato o fatto poco prima. Questo tipo di comportamenti è assimilabile a vere e proprie patologie della sfera comportamentale e psichica. Per questo non è frequente riscontrarli ma è necessario tenerli in considerazione.

 

Come già abbiamo visto nel corso del tempo, il counselling ha caratteristiche trasversali: è una relazione d’aiuto individuale, di coppia, di gruppo ed è applicabile a tantissimi ambiti. Abbiamo visto cosa sia anche la mediazione familiare, cioè un supporto per le coppie e/o famiglie in conflitto.
Rispetto al passaggio da counselling individuale a counselling di coppia, per noi di Mediare ci sono due questioni fondamentali:

  • cosa cambia da un percorso individuale a uno di coppia;
  • come il counselling di coppia per noi sia equivalente alla mediazione familiare, nel senso che quest’ultima ha un’efficacia molto più evidente se affrontata con gli strumenti del counselling.

Ecco perché consideriamo che siano sostanzialmente coincidenti. Andiamo per ordine.


Dall’individuo alla coppia: come si pone il counselor?

Il primo aspetto da considerare nel counselling di coppia è l’equilibrio che cambia tra l’esperto di aiuto e i clienti. Un conto è affrontare uno specifico tema con una persona che chiede aiuto, un altro è dare supporto a una coppia, quindi a due individui che hanno una relazione che li pone di fronte a dei conflitti.
Nel counselling di coppia e nella mediazione familiare, il counselor di trova di fronte a 3 soggetti:

  • il partner numero 1
  • il partner numero 2
  • la relazione

Considerato questo, vediamo quali elementi sono importanti per il counselor in funzione della coppia.

Accoglienza

Sappiamo già che l’accoglienza dei clienti è uno dei pilastri della relazione di aiuto. Nel caso della coppia, la prima cosa a cui il counselor deve prestare attenzione è il fatto che si presentino entrambi i partner o uno solo dei due, che porta con sé il terzo soggetto, cioè la relazione. Nel caso in cui si presenti solo un partner, il counselor deve informarsi per capire il perché. Già da qui può ricavare informazioni utili a inquadrare il conflitto in seno alla coppia.
Se invece la coppia si presenta assieme, fin dalla fase dell’accoglienza il counselor deve osservare le dinamiche che intercorrono tra i due. Non solo nelle parole che pronunciano, ma anche nel non verbale, negli sguardi e nel modo in cui mettono in atto il conflitto e arrivano a sviscerare il problema che li ha portati a chiedere aiuto.

Equivicinanza e neutralità

Una delle sfide più grandi per il counselor è quella di riuscire a tenere un atteggiamento più neutrale possibile rispetto a entrambi i partner. Il counselor e mediatore familiare sa che l'equivicinanza è molto importante perché anche i clienti avvertano che non propende per nessuno dei due. Si sente vicino a entrambi nello stesso modo ed è aperto ad accogliere le motivazioni di ognuno, ascoltare e interagire con entrambi allo stesso modo. Solo così i partner si sentono accolti e invogliati ad aprirsi al confronto.

Direttività

Sappiamo che il counselling non è direttivo, cioè non dice ai clienti come devono risolvere, cosa devono fare, non dispensa consigli. Usa piuttosto delle tecniche che aiutino il cliente a trovare da solo la soluzione, a ragionare e trovare dentro di sé le risorse.
Quando parliamo di direttività nel counselling di coppia ci riferiamo, però, a come un professionista deve gestire il processo e l’interazione. È importante che lo faccia con un singolo, ma ancora di più quando parla con una coppia. Deve quindi gestire i tempi della comunicazione, assicurarsi che entrambi i partner abbiano sufficiente tempo per parlare, che uno non prevalga sull'altro. Non riuscire a gestire il flusso delle interazioni, rischia di innescare ulteriori conflitti che vanno evitati.

Comunicazione

Il counselor ha un ruolo cruciale nella ristrutturazione della comunicazione nella coppia. Nella maggior parte dei casi, infatti, i partner arrivano da un counselor e mediatore familiare che non riescono più a condividere le proprie emozioni e tante altre cose oppure lo fanno in modo aggressivo e conflittuale. Il risultato è sempre la difficoltà a comprendersi. Un buon livello di comunicazione serve al counselor per ricavare informazioni utili a capire come aiutare la coppia. E serve alla coppia per entrare in contatto nel modo più efficace e funzionale.
Per questo motivo il counselor deve osservare qual è il livello di comunicazione della coppia, per sapere come instradarla a ritrovare un buon equilibrio, una condivisione e un riconoscimento emotivo reciproco.

Empatia

Altro concetto chiave del counselling, tanto più valido nella coppia, è l’empatia. Il counselor deve mostrarsi empatico con entrambi i partner perché anche loro imparino a esserlo tra loro.
Ricordiamoci che molte volte non facciamo qualcosa per il semplice motivo che non sappiamo come si fa. L’empatia sentita e mostrata dal professionista favorisce l’apertura dei partner alla comunicazione verso il counselor e mediatore familiare, ma soprattutto reciproca. Se uno dei due si mostra empatico verso l’altro, automaticamente favorisce la sua condivisione, apertura e voglia di condividere.


Modello sistemico

Da tempo lavoriamo perché la pratica sia prevalente rispetto ai modelli. Vogliamo che i modelli siano un riferimento importante, ma non che imbriglino il nostro lavoro coi clienti. Per questo preferiamo non soffermarci troppo sui modelli, ma ricavare dall'esperienza quanto di più utile per affrontare le diverse situazioni. È vero però, che i riferimenti teorici ci tornano utili in alcuni casi e in alcuni ambiti.
A questo proposito, specialmente nella relazione di coppia, è importante pensare a cosa ci dice il modello sistemico: ognuno di noi è inserito in un contesto, in un sistema. Se una parte di questo sistema cambia, anche noi siamo costretti a cambiare.
Facciamo un esempio: una coppia arriva da un counselor e mediatore familiare e uno dei partner sostiene di non sentirsi compreso dall’altro. Questo è un fattore che determina il conflitto.
Un buon professionista si accerta prima di tutto di una cosa: il partner che non si sente compreso, comunica all’altro in maniera efficace? Se non lo fa, è facile che poi non si senta compreso, perché non sta comunicando i propri bisogni, che non potranno quindi essere compresi e soddisfatti dall’altro. Quando, invece, comincia a comunicare chiaramente con il partner, questo sarà costretto a cambiare il suo atteggiamento e venire incontro alle richieste, facendo scomparire pian piano le incomprensioni.
Ecco perché usiamo il concetto di costringere: un comportamento ne innesca un altro conseguente, perché i partner sono connessi in un sistema in cui se cambia una parte, cambierà anche l’altra.


Counselling di coppia e mediazione familiare

Alla luce di tutto ciò che abbiamo detto, ci sembra giusto concludere soffermandoci sulla correlazione che per noi c’è tra mediazione familiare e counselling di coppia.
La diversa denominazione è data dal fatto che il counselling di coppia interviene sulle coppie in conflitto, che decidono di continuare la relazione. La mediazione familiare, invece, è quella che lavora con le coppie in fase di separazione.
Ciò che le accomuna è l’attenzione alla relazione futura dei partner. Al professionista non interessa che la coppia resti unita o si separi, perché la decisione spetta unicamente alla coppia stessa. Importa, piuttosto, che sappia gestire il rapporto in entrambi i casi. Counselling di coppia e mediazione familiare hanno entrambi l’obiettivo di sostenere le coppie senza interferire con il contenuto della decisione.
Per questo, da quasi 20 anni, Mediare lavora nella mediazione familiare con gli strumenti del counselling, più precisamente quelli del counselling di coppia. Cambia il nome ma non la sostanza: usiamo le stesse leve nella gestione del conflitto, con risultati eccellenti.
Riuscire a ristabilire una buona comunicazione nella coppia, anche in una fase critica come una separazione, non solo è possibile, ma è vitale perché la negoziazione sia efficace. Riuscire a rimettere in contatto empatico i partner dopo una forte crisi, è fondamentale perché riescano a comprendersi e trovino l’equilibrio ottimale.
Crediamo molto nel nostro metodo, perché i risultati ci danno ragione e ci confermano che riusciamo ad aiutare tantissime coppie anche nei momenti più difficili.

Sempre più spesso sentiamo parlare di autostima come qualità importante e imprescindibile per il nostro benessere. Il contesto in cui siamo immersi è via via più complesso e richiede sempre più competenze, sforzi e necessità di migliorarci. Per questo è necessario, mai quanto oggi, coltivare tante qualità tra cui la nostra autostima. Ma che cos'è, davvero, l'autostima?
Nella stragrande maggioranza dei casi, di questa qualità parliamo come contraltare all'insicurezza delle persone. Certo, questa è sicuramente una delle associazioni possibili che possiamo fare con questo concetto, ma è limitante. Se ci pensiamo bene, autostima significa letteralmente sapersi stimare, cioè dare un valore in senso globale. Ha senso quindi parlare di aumentare l’autostima, come se dovesse essere associata sempre con una percezione negativa di noi stessi?


Accrescere l'autostima: è sempre necessario?

La domanda può apparire provocatoria, ma rappresenta uno dei nodi della questione.
Perché si parla tanto di aumentare l’autostima, come fosse sempre e per forza necessario?
Ma ancora ci sarebbe da chiedersi come possiamo stabilire quale sia il livello di autostima adeguato, quando è troppo e quando è troppo poco?
Spesso ci rivolgiamo a un counselor e mediatore familiare sperando che ci aiuti a trovare gli strumenti per acquisire sicurezza in noi stessi. Il punto è che non esiste un parametro inequivocabile per misurarla, non c’è un indicatore matematico e la valutazione è affidata alla sensibilità ed esperienza del counselor e mediatore familiare e, soprattutto, a noi stessi.
Nello specifico possiamo dire che ci sono persone che tendono a sopravvalutarsi in alcuni ambiti e sottovalutarsi in altri. Il punto è trovare un equilibrio tale per il quale ognuno di noi riesca a percepire realmente le proprie capacità e accettare i propri punti deboli, sfruttando gli uni e gli altri a vantaggio del proprio benessere. Dovremmo sforzarci di fare una valutazione delle nostre azioni concrete, di come ci comportiamo in determinate situazioni e di come possiamo eventualmente migliorare.
L’autostima è quindi equilibrio di tanti fattori:

  • valutazione più oggettiva possibile delle nostre azioni,
  • valorizzazione delle nostre qualità,
  • riconoscimento e accettazione di ciò che ci mette in difficoltà, per poter migliorare se lo riteniamo necessario.


Sapersi valutare per raggiungere gli obiettivi

Il motivo per cui si insiste tanto sull'autostima è che valutarci da soli è difficile. Talmente difficile da essere quasi impossibile in alcuni casi. È frutto di un lavoro costante, di una voglia di mettersi in gioco e migliorare ciò che non va, ma anche delle opportunità che diamo a noi stessi.
Per fare degli esempi pratici: quante volte capita di non essere soddisfatti del lavoro e non cercarne nemmeno un altro, perché pensiamo di non esserne all'altezza? Quante volte vorremmo indossare alcuni abiti, ma non lo facciamo perché temiamo che non ci stiano bene come ai modelli che li portano nelle foto? O, al contrario, quante volte pensiamo di essere i più bravi di tutti e ci buttiamo a capofitto in una situazione che poi si rivela essere per noi fuori portata? Tutti questi sono esempi di una valutazione distorta delle nostre caratteristiche e capacità.
Inoltre, siamo continuamente sottoposti a modelli e input esterni che spesso ci fanno sentire inadeguati. Come se dovessimo per forza essere conformi a un modello per avere un valore: genitori perfetti, studenti modello col massimo dei voti, canoni fisici di un certo tipo, e così via.
Ma fermiamoci un attimo: che vuol dire tutto questo? Tutti questi modelli, ci servono davvero? Hanno a che fare coi nostri obiettivi? Ci serve vestirci come una fashion blogger, frequentare un certo tipo di persone, ascoltare un determinato tipo di musica, andare in una certa università, fare un certo tipo di lavoro, per sentirci stimati? È così importante autodefinirci in un certo modo per avere una buona considerazione di noi e sperare nell'approvazione degli altri?
Ognuno di noi dovrebbe prendersi il tempo per ragionare sui propri obiettivi, su cosa davvero vuol fare nel quotidiano, così come nel lungo termine, ma soprattutto su cosa davvero vuole essere.
Ecco a cosa serve l’autostima: valutarci per le nostre caratteristiche uniche, prendendoci la libertà di goderci il bello di ciò che siamo e che facciamo, accettando anche ciò che non sappiamo fare. Solo così possiamo, se vogliamo, lavorarci su e migliorare.

 

Counselling e mediazione familiare, esercizi per l’autostima

Tutto ciò che abbiamo detto non è qualcosa che possiamo ottenere con uno schiocco di dita, lo sappiamo. Proprio per questo non è detto che tutti possano riuscire da soli ad avere una percezione di sé più coerente con le proprie reali caratteristiche. Un counselor e mediatore familiare è un valido aiuto per capire meglio chi siamo e come ci percepiamo.
Counselling e mediazione familiare si basano sull'accettazione, sull'empatia e sull'assenza di giudizio dei clienti. Un buon professionista sa che ognuno di noi è diverso e ha delle qualità che magari deve solo mettere in evidenza. Come sa che ognuno di noi può fare un certo numero di errori, che non sono una condanna ma semplicemente una parte del nostro carattere. Solo riconoscendoli potremo accettarli e fare qualcosa di concreto per migliorare.
Per questo un buon esercizio che tutti possiamo fare, anche da soli, è prendere carta e penna e annotare da una parte le qualità e dall'altra le cose che ci piacerebbe migliorare. Prendiamoci il tempo che ci serve, concentriamoci sulle tante situazioni che abbiamo vissuto finora e cerchiamo di mettere a fuoco ciò che ci viene bene e ciò che magari pensiamo di non saper fare. Proviamo a farlo come se stessimo descrivendo qualcun altro così che ci venga più facile.
Se non ci sentiamo comunque in grado di percepirci davvero per ciò che siamo, counselling e mediazione familiare sono in grado di darci supporto. Ci portano a esercitarci con pazienza a raggiungere un buon livello di autostima e di riconoscimento di noi stessi. In questo modo ci mettono in condizione di focalizzare i nostri obiettivi e poterli raggiungere, limitando i condizionamenti esterni.

Il tradimento è una causa di rottura per molte coppie, perché non è semplice sapersi traditi e perdonare. Ma soprattutto non è semplice tornare a fidarsi della persona che ha tradito. Non per tutte, però, è così e accade anche che una coppia riesca a far fronte al tradimento e, quindi, continui la relazione. 
Restare insieme dopo un avvenimento del genere non è cosa semplice, anzi. Si può, quindi, trovare una soluzione? Ma soprattutto, come si supera un tradimento? 
Prima di scendere nei dettagli è bene fare una premessa: il tradimento non è una cosa che accade da un giorno all’altro, non è un colpo di testa. Piuttosto è il frutto di una serie di fattori che, nel tempo, sfociano nella ricerca di alternative più o meno estemporanee al di fuori della relazione stabile. Per questo è utile soffermarsi su alcune parole chiave che rappresentano i nodi attorno ai quali ruota il tradimento.

Fiducia

Dopo un tradimento, è fisiologico che nella coppia manchi la fiducia. Chi ha tradito può anche giurare e promettere di non farlo mai più, ma il partner che è stato tradito avrà molta difficoltà a fidarsi ancora. Nonostante questo ci sono molte coppie che decidono di mandare avanti la relazione, cercando un modo per normalizzare la situazione. 
È difficile perché, nonostante la voglia di rimanere insieme, spesso chi è stato tradito combatte ogni giorno con la mancanza di fiducia nel partner. Come risolvere, allora? 
Un suggerimento è sicuramente quello di cambiare prospettiva: se chi è stato tradito non può fidarsi del partner, dovrà puntare tutto sul fidarsi di se stesso. In termini pratici significa che chi è stato tradito può spostare il baricentro della fiducia su se stesso, facendo affidamento sulla propria capacità di prevenire in futuro una situazione simile. O ancora, mettendosi in condizione di avvertire i segnali di un eventuale nuovo tradimento in arrivo, intervenendo per tempo con un dialogo costruttivo e un confronto. 
Ci sono anche casi in cui la minaccia del tradimento rende il rapporto più vivo. Diventa, paradossalmente, ciò che spinge un partner a essere più attento ai propri comportamenti per evitare che questo succeda.

Conflitto

Altra importantissima parola chiave è questa. Il tradimento, infatti, scaturisce da un conflitto interno alla coppia, anche quando questo non è manifesto. Ci sono invece le situazioni in cui il conflitto è evidente e palese attraverso litigi, continui battibecchi, ripicche. La coppia si allontana e questo favorisce la ricerca di un diversivo all’esterno della coppia. 
Quando il tradimento avviene, il conflitto si acuisce e ognuno dei partner incolpa l’altro, addossandogli responsabilità su ciò che non va bene e che porta la coppia alla crisi. Uno scenario di questo tipo è abbastanza comune: il partner che tradisce si prende tutte le colpe e promette di non farlo più, il partner che viene tradito dà la colpa all’altro del tradimento pensando di non avere responsabilità. 
In realtà le responsabilità sono di entrambi, perché l’allontanamento di un partner è conseguenza di qualcosa che si è rotto in seno alla coppia. Ecco perché è necessario un confronto costruttivo e una serie di regole.

Regole

Darsi delle regole è un concetto che alcuni percepiscono come un voler ingabbiare la relazione. Soprattutto le donne, ma non solo, pensano che il partner dovrebbe sapere da solo come comportarsi in tutte le situazioni, tale da non creare attriti nella coppia. Non può, però, funzionare così. Ognuno di noi è diverso a causa della struttura familiare e di valori che ha alle spalle. Un comportamento vissuto come naturale da un partner, può essere meno accettato dall’altro. Per questo, confrontarsi e darsi delle regole non scritte ma chiare, possiamo considerarlo un gesto di buonsenso per l’armonia in coppia. 
Può sembrare banale, ma dire al proprio compagno che quando incontra un’amica ci fa sentire insicure se la abbraccia, la bacia e ha un approccio molto orientato al contatto con lei, può rendere più semplice per lui capire come comportarsi. Se per un uomo sapere che la propria compagna esce con amici maschi può essere fonte di fastidio, è bene dirlo, spiegare le insicurezze e i motivi.
Come possiamo aspettarci che l’altro si comporti come noi desideriamo per stare bene, senza che glielo diciamo chiaramente? Se non siamo in grado di darci questo tipo di regole, è molto probabile che si inneschino delle gelosie e delle incomprensioni che conducono la coppia a conflitti altrimenti evitabili. Quando questi conflitti si sommano, non ci ricordiamo più nemmeno da dove siano partiti e diventa molto difficile recuperare il bandolo della matassa per fare ordine. Le incomprensioni allontanano i partner e questo favorisce un tradimento in moltissimi casi.

Comunicazione

Come già molte altre volte abbiamo sottolineato, la comunicazione nella coppia è un campo a cui dedicare molta attenzione. 
Quante cose rimangono non dette, anche nelle coppie più longeve? 
Quante volte non riusciamo a dire ciò che vorremmo al partner? 
Partiamo dal presupposto che qualsiasi piccolo malessere, se non comunicato e discusso col partner, è destinato a sedimentarsi, crescere fino ad allontanare la coppia. Se ci allontaniamo dal partner significa che non ci stiamo mettendo in gioco insieme, ma che ognuno tiene per sé il proprio malcontento. In questo modo è molto più facile che si inneschi una dinamica che vede uno dei due, o entrambi, ricercare al di fuori una fonte di piacere. 
In questo senso, allora, dobbiamo considerare di entrambi la responsabilità: la colpa non è solo di chi tradisce, ma significa che si è interrotta la comunicazione e la voglia di risolvere assieme i problemi fisiologici di ogni coppia. Lo scambio continuo, la rinegoziazione costante del rapporto in base alle esigenze e alle fasi che ognuno vive, sono elementi vitali che scongiurano l’allontanamento e il possibile tradimento. Per questo, anche se il partner ci ha tradito, vale la pena di fare uno sforzo in questa direzione: parlarne, confrontarsi, non avere paura di esprimere tutto ciò che ci fa star male ma anche ciò che vorremmo per stare meglio.

Caratteristiche positive VS negative

Già quando abbiamo parlato di conflitto nella coppia abbiamo introdotto il concetto di monitoraggio affettivo. Significa che ogni qual volta incontriamo una persona che ci attrae, è come se compilassimo una lista mentale delle caratteristiche che ha. Naturalmente tendiamo a soffermarci più su quelle che ci piacciono e riteniamo positive, perché sono quelle che tendenzialmente soddisfano un nostro bisogno. In realtà vediamo anche le caratteristiche che non ci piacciono dell’altro/a, ma in un primo momento le mettiamo da parte. Queste ultime, in realtà, possono anch’esse avere un ruolo nel soddisfare un nostro bisogno, perciò diventano funzionali alla relazione. Per esempio: una donna riesce a conquistare un uomo che è un latin lover. Ha avuto relazioni con diverse donne della compagnia che frequentano e lei si sente migliore delle altre per averlo conquistato tutto per sé. 
È ovvio che fin dall’inizio a lei è chiara la tendenza di lui a corteggiare diverse donne, ma in quel momento diventa un elemento funzionale alla riuscita della relazione: soddisfa il bisogno di imporsi su tutte le altre donne vicine all’uomo che lei vuole. 
Naturalmente questo è solo uno dei tanti esempi, che serve però a rendere l’idea di come una caratteristica che non ci piace possa rivelarsi utile a far nascere una relazione. Ecco perché ciò che avvicina due persone, può diventare lo stesso che le mette in crisi.

 

Tutte queste azioni e accorgimenti non sono messi in atto con frequenza dalle coppie, al contrario risultano difficili. Non tutti, infatti, sono capaci di comunicare efficacemente, darsi delle regole, inquadrare il conflitto e le responsabilità oggettive. Anzi, in realtà sono pochissimi quelli che ci riescono. 
Per questo esistono counselor e mediatori familiari, che conoscono i modi più efficaci per sorreggere le coppie nella loro ricerca di equilibrio e serenità, anche dopo un tradimento. 
Le coppie che chiedono aiuto al counselling di coppia e mediazione familiare vengono messe nella condizione di farsi una serie di domande. 
È possibile continuare a dividere la propria vita con chi ha cercato il piacere al di fuori della coppia? 
Si può trovare il modo di recuperarlo, quel piacere, all’interno della coppia? 
Si aggiungono ulteriori domande nel percorso di counselling e mediazione familiare, quando i partner riescono a rovesciare la prospettiva e chiedersi: cosa ho fatto io perché l’altro non mi tradisse? Che cosa ha spinto l’altro partner a essere distante e farmi sentire persino rifiutato? Dove abbiamo perso il contatto costruttivo che ci potesse far risolvere assieme il conflitto? 
Proprio perché un tradimento non è qualcosa che deriva da un colpo di testa, ma da una situazione di malcontento, di crisi e conflitto, ha senso andare a ricercarlo insieme, chiarirsi, confrontarsi, mettere le carte in tavola e darsi delle regole. 

Da sempre l’uomo cerca la ricetta per gestire il conflitto in coppia e forse è quella più difficile da trovare. Ogni coppia, anche quella più salda, vive conflitti più o meno aspri ed è del tutto normale. Il problema non è il conflitto in sé quanto riuscire a farlo rientrare, ritrovare un equilibrio e mantenerlo. Quando questo non succede, la rottura è altamente probabile. 
Ma come si può capire perché una coppia passi dall’amore e la condivisione alla guerra quotidiana di un conflitto logorante? Una spiegazione c’è. Quando una coppia entra in crisi o si separa, spesso sentiamo dire frasi come: “metterci insieme è stato un errore”. È possibile, quindi, che scegliamo di condividere una parte della nostra vita con una persona sbagliata? E cosa vuol dire sbagliata?
Andiamo per ordine. 
Quando due persone si incontrano, decidono di formare una coppia perché entrambe fanno quello che possiamo chiamare un monitoraggio affettivo sul futuro partner. È come se prendessero nota di tutte le caratteristiche dell’altro, con particolare attenzione a quelle positive. Non significa che le caratteristiche negative non siano visibili, ma inizialmente passano in secondo piano. Questo accade non perché l’essere umano sia sciocco, ma perché ognuno di noi ha dei bisogni che cerca di soddisfare anche tramite il partner che sceglie. Possiamo dire, quindi, che scegliamo il nostro partner in base ai nostri bisogni. 
Come mai, allora, arriva il momento in cui nasce il conflitto e può diventare ingestibile?

I bisogni cambiano, i comportamenti no

Ognuno di noi ha delle caratteristiche ben precise, che si modificano nel tempo, ma non è vero che cambiamo radicalmente. Un’altra frase che sentiamo pronunciare spesso dalle coppie in crisi è “sei cambiato/a”, ma non è sufficiente a spiegare l’attrito con il partner. Piuttosto dovremmo dire che cambiano i bisogni nel corso del tempo e della fasi della coppia. 
Prendiamo un esempio: in una coppia in cui un partner è tendenzialmente autonomo e l’altro dipendente, la scintilla si accende proprio per questo motivo. L’autonomo vuole soddisfare il bisogno di avere pieno controllo su ciò che fa e, assumendosi tutto il carico di responsabilità che deriva dalla gestione di tanti aspetti, soddisfa anche il proprio bisogno di prendersi cura del partner. Viceversa, il dipendente vede nell’autonomo la persona giusta a cui appoggiarsi, proprio in virtù della sua capacità di decidere su tanti fronti, avere il controllo di tutto ed essere indipendente. 
È frequente che questo tipo di rapporto tenda ad alimentare gli aspetti dominanti di entrambi: il dipendente diventa sempre più dipendente, mentre l’autonomo si sente schiacciato dalla responsabilità di dover pensare a tutto, senza aver nessuno che faccia lo stesso nei suoi confronti. L’autonomo arriva a un punto in cui vorrebbe avere un partner pronto ad accudirlo, ma non vede soddisfatto questo bisogno e spesso non riesce nemmeno a comunicarlo nel modo giusto. Al contempo, il dipendente non riesce ad andare incontro al bisogno del partner, perché non sa come farlo.
Ecco dove si innesca il conflitto: i bisogni cambiano nel corso del ciclo vitale della coppia, mentre i pattern di comportamento spesso rimangono gli stessi.

“È colpa tua!”, “No, è colpa tua!”

Una delle cose che accadono più spesso nei litigi e nelle crisi di coppia è darsi le colpe a vicenda. Ognuno dei partner non riesce a mettere a fuoco la sua responsabilità e incolpa l’altro di essere la causa del problema che porta la coppia al litigio. In gergo tecnico è quello che viene chiamato conflitto di attribuzione. 
È un meccanismo che ci serve per difenderci, per tirarci fuori dalla responsabilità di aver contribuito all’innesco del conflitto. Lo mettiamo in atto anche perché non è facile riuscire a fermarci, provare a mettere a fuoco la situazione e ammettere che proprio un nostro comportamento può aver scatenato una discussione o permesso a un conflitto di sedimentarsi. Com’è possibile riuscirci?

 

Come gestire il conflitto di coppia con il counselling e la mediazione familiare

Se una coppia pensa di averle provate tutte ma il conflitto rimane, può essere il momento di rivolgersi al counselling di coppia e mediazione familiare. Proprio perché non è facile riuscire a individuare le proprie responsabilità e, ancor prima, i propri bisogni, un professionista della relazione di aiuto è in grado di dare l’adeguato supporto a ogni tipo di coppia. 
Torniamo all’esempio della coppia in cui un partner tende a essere autonomo e l’altro dipendente. Con buona probabilità non si renderanno conto da soli di questo equilibrio tra loro. Un counselor e mediatore familiare è in grado di riconoscere queste caratteristiche nei singoli e decifrare come vengano messe in atto in coppia. Dopo aver raccolto questi dati tramite racconti, osservazione della coppia e delle dinamiche di comunicazione tra i partner, è in grado di portare ognuno di loro al riconoscimento di se stesso, innanzitutto. Ecco come in maniera autonoma potranno capire quali responsabilità hanno nella coppia, nel conflitto e come migliorarsi per evitarlo. 

Rinegoziare il rapporto e fare nuove esperienze

Ognuno di noi agisce in base alle proprie esperienze: siamo il frutto di ciò che ci è stato insegnato, dello stile di attaccamento che abbiamo sviluppato nella nostra infanzia. Per questo spesso inseriamo il pilota automatico e replichiamo dei comportamenti come fossero ormai abitudinari. Non ne conosciamo altri e non sappiamo come metterli in pratica. 
Per questo, capire che comportamento mettiamo in atto fa sì che riusciamo anche a cambiarlo. Counselling di coppia e mediazione familiare attivano in noi la capacità di farlo, quando non ne siamo in grado da soli. Ci mettono di fronte alla possibilità di fare esperienze diverse per migliorare gli equilibri della nostra vita quotidiana. 
Mettere in atto dinamiche nuove è frutto di una rinegoziazione del rapporto: i partner sono in grado di esprimere le proprie esigenze individuali all’interno del perimetro della coppia. Saperle comunicare mette i partner in grado di confrontarsi e trovare insieme la soluzione migliore.
La chiave per la felicità della coppia passa, quindi, da un rinnovamento costante, dalla voglia di mettersi in gioco e cambiare guardando nella stessa direzione.

Sempre più spesso ci sentiamo in affanno per le troppe cose da fare e, intorno a noi, tutti quelli che conosciamo sono sempre di corsa, come e più di noi. Il mondo in cui viviamo ci impone questi ritmi frenetici in cui trovare un momento per fermarci sembra diventato impossibile. Il lavoro, i bambini da crescere e seguire, il corso di aggiornamento, la spesa, i panni da mettere in lavatrice, la cena con i colleghi… e noi? Come stiamo noi? Non abbiamo nemmeno il tempo per chiedercelo, perché siamo troppo stanchi ma comunque pensiamo che non dobbiamo fermarci mai. Certi impegni sono imprescindibili, ma nulla dovrebbe impedirci di ritagliarci uno spazio in cui prendere un bel respiro. Anzi, più di uno.

 

Il respiro consapevole: far fluire le emozioni

Facciamo una prova: se ci prendiamo 10 minuti, solo 10 minuti, e ci sediamo sulla nostra sedia o poltrona preferita, chiudiamo gli occhi e ascoltiamo il nostro respiro, che succede? Sicuramente siamo in grado di sentirne il ritmo e capire se è veloce, se è affannoso oppure lento. Concentriamoci ora sull’equilibrare inspirazione ed espirazione e poi sulle nostre emozioni. Cosa proviamo? Cosa sentiamo davvero? Sono sensazioni positive o negative? Ascoltando il respiro, ci renderemo conto se è rilassato o corto, veloce o lento. Questo ci dice molto di cosa succede dentro di noi. Solo prendendo tempo possiamo capire cosa ci dice il nostro corpo e la nostra mente, di cosa abbiamo bisogno, possiamo goderci un momento bello e piacevole anziché farcelo passare davanti e negarci la gioia di viverlo, celebrarlo. Vale lo stesso se ci accorgiamo di sentire un’emozione negativa: siamo in grado di focalizzarla, capire di cosa si tratti e da dove venga, cosa ci abbia fatto sentire così. Immaginiamo, allora, di avvolgerla con il nostro respiro e di lasciarla andare ogni volta che espiriamo. Buttiamo fuori un po’ per volta l’ansia, la tristezza, la preoccupazione, la rabbia, soffiamola via. Funziona, vero? Ci sono tante ragioni per cui la respirazione è un vero e proprio strumento di benessere. Vediamone alcune.

Espirare e inspirare: dare e ricevere

Come abbiamo detto, il respiro dice molto di noi e di come stiamo. Evidenzia se ci sono dei blocchi emozionali, per esempio. Nell’ottica psicologica, il respiro è legato anche al meccanismo di dare e ricevere. Inspirare è simbolo del prendere, del ricevere; al contrario, espirare significa dare e anche lasciare andare. L’equilibrio tra dare e ricevere è fondamentale per ogni essere umano e si riflette nel nostro respiro. Voler prendere troppo è sintomo di avidità a cui deve essere controbilanciata una giusta capacità di dare agli altri, all’ambiente che ci circonda. Allo stesso modo, dare tanto senza volere in cambio non ci fa bene. Riuscire a trovare un equilibrio tra inspirazione ed espirazione è in grado di riportarci a un equilibrio anche tra dare e ricevere, perché ci rimette in equilibrio con noi stessi.

Ossigeno per il corpo e per la mente

Sappiamo che respirare ci permette di ossigenarci, perciò respirare in maniera consapevole ci permette di ossigenarci di più e meglio. Portare più ossigeno ai nostri polmoni significa aumentarlo nel sangue e migliorare la pressione arteriosa e il ritmo del nostro battito cardiaco. Quando siamo ansiosi il ritmo del nostro cuore è accelerato o irregolare e questo, a lungo andare, è dannoso per il nostro organismo. Prenderci del tempo per inspirare ed espirare più a lungo permette una maggiore ossigenazione del nostro organismo e un rilassamento. Così siamo in grado di riequilibrare anche quello che viene chiamato “ormone dello stress”: il cortisolo. Gestire il respiro, infatti, ci permette di avere un’attività aerobica efficace, che interviene anche sul nostro equilibrio ormonale.

Il diaframma, il nostro centro di distribuzione dell’energia

Il diaframma è il muscolo che tutti abbiamo e ci permette di gonfiare e sgonfiare la nostra cavità toracica per riempirla e svuotarla di aria. Di fatto è il principale attore della nostra respirazione. Senza nemmeno accorgerci, impariamo fin da piccoli a limitarne la funzionalità per un meccanismo di difesa. Facciamoci caso: quando siamo arrabbiati, ansiosi, preoccupati, il nostro respiro è più corto e affaticato. Questo significa che non ci stiamo prendendo la giusta pausa tra inspirazione ed espirazione, il nostro diaframma si contrae più velocemente per far entrare e uscire l’aria. Questo fa sì che non solo distribuisca ossigeno, ma dosi di conseguenza l’energia da irradiare al nostro organismo. Pensiamo a quanto sia importante la respirazione per una donna che partorisce: anche dosando la respirazione e la spinta del diaframma, una donna è in grado di indirizzare tutte le energie necessarie per dare luce a una vita. Ecco che comprendiamo la potenza del nostro respiro, quanto sia legato a come distribuiamo l’energia al resto del corpo. Concentrarsi su di esso ci permette di rallentare, di focalizzare meglio cosa ci turba e, al contempo, di vedere più nitidamente quali risorse possiamo utilizzare per trovare una soluzione. Una pausa in compagnia del nostro respiro ci permette di chiederci come impiegare al meglio le nostre energie, indirizzandole verso una soluzione positiva, anziché caricarle di ulteriore stress.

Muscoli contratti, addio

Spesso i nostri stati emotivi di turbamento sono connessi anche a disturbi fisici. Uno dei più frequenti è contrarre i muscoli di alcune zone del corpo, per esempio spalle e collo. Per sciogliere le tensioni possiamo ricorrere a un massaggio, per esempio. Ma questo è un modo che interviene da fuori; respirare in modo consapevole ci aiuta a sciogliere queste contratture da dentro, rendendo più efficace l’azione. Sentirsi meglio fisicamente ci dà una sensazione di benessere generale, ci predispone a concentrarci più positivamente sulle cose che abbiamo in mente e trovare le risorse più adeguate per affrontarle. Il nostro stato psicofisico generale migliora e ci mette in condizione di essere più sereni.

 

Counselling e mediazione familiare: come lavorano sul respiro?

Ora che abbiamo più chiaro perché respirare in modo consapevole è importante, ci è più semplice intuire per quali ragioni un professionista della relazione d’aiuto possa chiederci di soffermarci a respirare. Come abbiamo visto ci sembra un’azione così scontata, eppure non ci rendiamo conto di quanto influisca negativamente se incontrollato. Ci sono tantissime tecniche di respirazione, usate fin dall’antichità da discipline e filosofie orientali, quanto da pratiche di concentrazione e meditazione occidentali. Il counselling e la mediazione familiare naturalmente non sono corsi di meditazione, né hanno pretesa di sostituirsi ad altre discipline. Ne mutuano però alcune tecniche al solo scopo di rendere i clienti più consapevoli del proprio stato emotivo. È importantissimo che i clienti siano in grado di riconnettersi con lo strato più profondo di se stessi, per portare fuori tutto il necessario alla risoluzione del problema. Anche riuscire a utilizzare la respirazione come risorsa è un primo passo verso la crescita e la consapevolezza di poter affrontare tutto ciò che ci turba.

L’epoca in cui viviamo può essere definita l’era della comunicazione. I mezzi di comunicazione di massa sono nati in tempi recenti e si sono evoluti in tempi rapidissimi, moltiplicandosi e facendo cambiare pelle tante volte al nostro modo di comunicare con gli altri. Ma, a proposito, cosa vuol dire comunicazione? 
Dal latino communicatio, letteralmente “mettere insieme”, oggi per noi ha il significato di rendere partecipe qualcuno, indirizzare dei messaggi agli altri, far sapere qualcosa. È quindi un'azione che prevede un emittente (chi parla) e un destinatario (chi riceve il messaggio). Tra chi parla e chi riceve il messaggio, si sviluppano innumerevoli dinamiche, perché comunicare è mettersi in relazione. Molto più di un flusso di messaggi tra due o più persone, quindi: un vero e proprio innesco di reazioni, emozioni, sentimenti che viaggiano con le nostre parole, i nostri gesti, la nostra voce. 
Counselling e mediazione familiare lavorano sulla comunicazione con i clienti e dei clienti nella loro vita quotidiana, proprio per questo motivo. Il modo che noi abbiamo di costruire la relazione con gli altri dipende dal modo in cui comunichiamo con loro: più siamo consapevoli della nostra comunicazione, più lo saremo di noi stessi e delle nostre relazioni. 
Scopriamo insieme come comunichiamo, parlando di quali sono i tipi di comunicazione.


I tipi di comunicazione

Quando parliamo con qualcuno lo facciamo con le parole, ma assieme a ciò che pronunciamo c’è anche il non detto. È ciò che non esprimiamo a parole, appunto, ma che riguarda i nostri gesti, il modo in cui ci poniamo nello spazio, il tono della nostra voce. Stiamo quindi parlando del come comunichiamo con gli altri, dei modi che accompagnano le nostre parole e non solo di cosa diciamo. 
Le parole che usiamo sono importantissime e per questo avere padronanza del linguaggio verbale ci permette di sceglierle con cura, per rendere la nostra comunicazione il più possibile aderente a ciò che vogliamo dire. Ma spesso, molto spesso, non siamo altrettanto attenti al come stiamo pronunciando quelle parole. 
Vediamo i diversi livelli di comunicazione per capire la loro importanza.


Comunicazione verbale

La comunicazione verbale è quella che riguarda le parole che usiamo nei nostri messaggi. Delinea il contenuto dei nostri messaggi, cosa vogliamo dire. Questo livello di comunicazione viene ritenuto molto importante perché è anche il più manifesto. 
Le parole che scegliamo parlano di noi: se siamo bravi a sceglierle, se diamo alle parole importanza e ci impegniamo a conoscerne sempre di nuove, per arricchire la nostra comunicazione verbale, quest’ultima sarà sicuramente più efficace. Non servono lauree o dottorati, ma una buona dose di curiosità. Un buon esercizio per arricchire il nostro linguaggio è leggere. Quotidiani, romanzi, articoli di blog in rete. Arricchire il nostro linguaggio e saperlo usare in maniera congrua alla situazione in cui ci troviamo, è un modo per migliorare le nostre relazioni con gli altri. 
I sostantivi, i verbi, gli avverbi che utilizziamo non servono a fare sfoggio di cultura, ma a parlare di noi, della nostra esperienza, dei nostri sentimenti e delle nostre emozioni. Saper sottolineare un dettaglio, specificare una sensazione o descrivere un avvenimento con le giuste parole, fa sì che possiamo essere compresi dalle persone a cui stiamo destinando il nostro messaggio. Ecco perché counselor e mediatori familiari fanno attenzione alle parole che dicono i clienti, spronandoli a trovarne di più precise se necessario: è un esercizio che li spinge a riconoscersi nel profondo.

Comunicazione non verbale

La comunicazione non verbale ci fa spostare sul piano del come ci poniamo durante la nostra comunicazione. La dimensione non verbale riguarda la nostra postura, il modo in cui occupiamo lo spazio intorno a noi, i gesti che facciamo quando parliamo o anche quando non diciamo nulla. 
Se qualcuno ci dice qualcosa, il modo in cui lo fa incide fortemente sul contenuto. Secondo uno studio di Albert Mehrabian del 1972, la sfera del non verbale e del paraverbale avrebbero un peso pari al 93% nelle nostre conversazioni. Ci sono pareri molto contrastanti su questi dati, che in effetti sono molto sbilanciati, quasi come se la parola non avesse peso. Non è certamente così, ma vale la pena di concentrarsi sull’aspetto non verbale e sulla sua importanza. 
Facciamo un esempio: un compagno di università ha superato un test importante e ha preso un voto più alto del nostro. Gli diciamo “bravo!” in un caso con un sorriso, un’espressione distesa e una postura rilassata; in un altro caso con le braccia incrociate, guardandolo a malapena. Il contenuto rimane lo stesso e si congratula per il suo gesto, che stiamo riconoscendo con le parole, quindi con il livello più manifesto della nostra comunicazione. Ma cosa dice il nostro non verbale? In questo caso due cose opposte, che molto probabilmente lui noterà. 
Immaginiamo invece che qualcuno ci ponga una domanda e noi non rispondiamo. Già il nostro silenzio comunica: non sappiamo cosa rispondere, siamo in difficoltà, o addirittura ignoriamo la domanda per esprimere ostilità e distanza da chi ce l’ha fatta. Tutto questo può essere compreso dall’atteggiamento non verbale. Se il silenzio è accompagnato da uno stropicciarsi di dita, da un’espressione di paura, è evidente che non rispondiamo perché non sappiamo come farlo, non eravamo preparati a quella domanda. Oppure temiamo di dare una risposta che può generare un conflitto, non troviamo le parole giuste, stiamo prendendo tempo. Se invece il silenzio è accompagnato da un’espressione di sfida, di sufficienza o di totale indifferenza come se non l’avessimo nemmeno ascoltata quella domanda, è evidente l’intenzione che comunica il nostro non verbale. Stiamo volutamente e provocatoriamente decidendo di non dire nulla, facendolo capire a chi ci ha posto la domanda senza parole, ma con il nostro modo di comportarci. 
È importante concentrarci sul modo in cui veicoliamo i nostri messaggi. 
Per questo il counselor e il mediatore familiare fanno attenzione all’espressione del non verbale da parte dei clienti, perché in maniera inconsapevole dicono molto di sé. La postura, il modo di gesticolare, tamburellare con le dita sul tavolo, guardare altrove o sostenere lo sguardo dell’interlocutore, sono tutti modi di comunicare il nostro stato d’animo a cui spesso non facciamo caso.


Comunicazione paraverbale

Siamo ancora nella sfera del come esprimiamo noi stessi. La comunicazione paraverbale riguarda il tono della voce, il volume, il timbro. 
Pensiamo all’esempio precedente del compagno che prende un voto più alto del nostro: la postura più aperta e distesa molto probabilmente sarà accompagnata da un tono squillante, positivo, amichevole. Al contrario, le braccia incrociate e lo sguardo sfuggente, probabilmente si accompagneranno a un tono più grave, sicuramente meno felice per il compagno, ma anzi, forse addirittura seccato. Se chiudessimo gli occhi e sentissimo solo il tono di voce, saremmo in grado di riconoscere lo spirito che sottende a quel “bravo!”, senza nemmeno vedere con gli occhi il non verbale. 
Pensiamo anche all’atteggiamento e al tono di voce che teniamo in situazioni diverse: a un colloquio di lavoro andiamo ben vestiti, teniamo un comportamento contenuto e professionale sia nelle parole, che nel modo di porci e di parlare, di intonare la nostra voce. Vogliamo fare un’impressione positiva come professionisti a chi ci intervista. Con gli amici o con la famiglia, siamo sempre noi ma ci permettiamo dei registri linguistici diversi, dei toni di voce diversi e più confidenziali, perché il contesto lo permette. 
Ecco perché la comunicazione è espressione della relazione che abbiamo con gli altri e la moduliamo di conseguenza. Dove non siamo capaci di comunicare in modo appropriato alla situazione, il counselling e la mediazioni familiare possono aiutarci. I professionisti si cimentano ogni giorno nel riconoscere e tenere in considerazione i diversi livelli della comunicazione, per questo sono esperti e in grado di renderci consapevoli dei nostri modi e dei contenuti che veicoliamo agli altri.

 

Il counselling e la mediazione familiare sono un valido supporto per la coppia, se da sola non riesce a trovare un equilibrio. Il percorso fatto con un professionista è utile per molteplici aspetti della relazione tra due persone, compreso quello della sessualità. 
Ancora oggi il sesso all’interno della coppia viene dato come elemento scontato, ma non sempre è un aspetto così naturale o semplice come si potrebbe pensare. Moltissime coppie incontrano fasi, più o meno lunghe, in cui la sfera sessuale presenta dei problemi. Questo perché noi esseri umani non viviamo la sessualità solo fisicamente, ma gioca un ruolo fondamentale il nostro stato mentale. Se viviamo periodi di difficoltà, se c’è qualcosa di irrisolto per traumi o rapporti familiari poco equilibrati, tutto questo si rifletterà nella nostra vita sessuale. A maggior ragione se si tratta di incomprensioni con il partner in riferimento a conflitti irrisolti o momenti di distanza.


Riconoscere il problema non è sempre facile

Partiamo da un presupposto molto importante: il sesso è un bisogno per gli esseri umani, come lo è, ad esempio, mangiare. Entrambi, il sesso e il cibo, provocano in noi piacere, un premio immediato per il nostro bisogno. È un aspetto molto importante della nostra vita, soprattutto in una coppia stabile.
Nonostante questo, la sessualità è ancora vissuta come un tabù nella nostra società. Oramai se ne parla più apertamente di prima, ma sempre in maniera distante, astratta. Esistono tanti esperti in materia, come medici, psicologi, counselor e mediatori familiari, tra i tanti, eppure c’è ancora un blocco nel capire che se qualcosa non va nella sfera sessuale, c’è un problema. 
Il fatto che sia ancora ritenuto un argomento spinoso, fa sì che anche coppie giovani - che dovrebbero essere più aperte - si trovino in difficoltà nell’affrontarlo.
Nella maggior parte dei casi il problema che la coppia affronta nell’ambito sessuale, viene da più lontano. Ogni coppia ha conflitti più e meno importanti, ma anche quelli più piccoli possono crescere e spostarsi di piano. Se una coppia litiga per qualcosa, non riesce a chiarirsi rinegoziando il proprio rapporto, il conflitto non rimane confinato all’area della discussione. Cammina, si sposta, fa un salto di livello.


Bisogni ed esigenze: chi li sa ascoltare davvero?.

Come abbiamo detto, il conflitto nella coppia si genera perché non siamo in grado di rispondere adeguatamente ai nostri bisogni. In primo luogo perché non ci soffermiamo a individuarli e anche quando lo abbiamo fatto, non siamo in grado di comunicarli al partner. In questo modo, il nostro partner non sarà in grado di soddisfare i nostri bisogni e l’attrito sarà destinato a crescere. La sfera sessuale non può rimanere esente dal conflitto, sebbene questo sia in un’area che a noi sembra tanto lontana. 
Un esperto della relazione d’aiuto come il counselor e mediatore familiare può intervenire e dare supporto alla coppia. L’intervento di un professionista è sempre mirato alla crescita personale, alla percezione di se stessi e dei propri bisogni e quindi anche alla serenità della vita sessuale della coppia. Se ognuno di noi non riesce a percepire realmente qual è il proprio bisogno nella relazione, diventa davvero difficile che riesca a esprimersi con il partner. 
Liberarci delle sovrastrutture e concederci la libertà di pensare a cosa ci fa stare bene anche nel sesso è importante per noi stessi e per l’equilibrio nella vita di coppia.

 


Liberi di esprimerci, senza paure

La sessualità è un modo per sentirci liberi di percepire le nostre sensazioni, per far fluire le emozioni, per lasciarsi andare senza condizionamenti. La persona con cui abbiamo deciso di condividere la nostra vita dovrebbe essere la prima ad accogliere le nostre confessioni e richieste. E allora perché non riusciamo a parlare liberamente della sfera sessuale, proprio con la persona con cui la dovremmo vivere e condividere? Come ci fa sentire?


Alla ricerca della comunicazione empatica

Torna nuovamente il tema della comunicazione, dove non ci può essere spazio per il non detto. Non solo su tensioni e conflitti in sfere diverse da quella sessuale, ma anche riguardanti proprio il sesso. Avere delle fantasie o anche semplicemente delle esigenze o richieste per il partner, deve essere comunicato. Ma perché spesso non siamo capaci di farlo? Cosa ci blocca? 
Il motivo è che abbiamo paura di non essere accolti nelle nostre richieste, non compresi nelle nostre insicurezze, non accettati come partner che possono soddisfare il desiderio sessuale dell’altro. Ecco perché un counselor e mediatore familiare può aiutarci a essere più consapevoli e a esprimerci senza timori. Ed ecco perché un professionista è in grado di aiutare una coppia a comunicare in modo empatico, aperto e soprattutto efficace. 
Se due partner non comunicano apertamente su un disagio che non li fa stare sereni, un counselor e mediatore familiare conosce le corde da toccare per mettere in moto il processo che la coppia può portare avanti autonomamente.

Riuscire a definire cosa siano esattamente le emozioni è impresa complessa. Nel tempo sono state classificate come risposte comportamentali, altre come risposte fisiologiche, altre ancora come risposte espressivo-motorie, infine come risposte a sensazioni. E se fossero l’insieme di tutto questo? 
Oggi si tende a definire le emozioni come un processo più che uno stato. Un processo fatto da diversi componenti, che ha dei confini temporali limitati e definiti e risponde a diverse esigenze. Si distinguono quindi dall’umore e dalla emotività, che sono rispettivamente uno stato con durata più lunga nel tempo e un tratto di personalità più o meno stabile. 
Oltre le definizioni, ciò che ci dovrebbe interessare tutti è imparare a dare un nome alle emozioni e riconoscerle. Il counselling e la mediazione familiare danno largo spazio alla sfera emozionale, perché la ritengono una parte di noi fondamentale. Counselor e mediatori incentivano i clienti a riconoscersi tramite le emozioni che provano, a dar loro un nome, sentirsi liberi di viverle e farne tesoro. 
Il dibattito continua a essere aperto, possiamo però dire che c’è una classificazione delle emozioni che possiamo ritenere indicativa, perché accomuna tutti gli esseri umani. Parliamo delle emozioni primarie. .

 

Tutti siamo in grado di provarle: le emozioni primarie

Paul Ekman, psicologo statunitense, ha condotto degli studi che sono arrivati a classificare le emozioni provate da tutti gli esseri umani del mondo, senza distinzione di cultura, stato sociale, civilizzazione, religione o qualsiasi altro elemento. Oltre la classificazione in sé, il dato importante che emerge è che sono innate in ognuno di noi e non frutto di convenzioni sociali o altre sovrastrutture. 
Le emozioni primarie sono 6:

  • Rabbia: quando la frustrazione per qualcosa si trasforma in aggressività;
  • Paura: risponde all’istinto di salvarci in una situazione di pericolo;
  • Disgusto: quando proviamo repulsione verso qualcosa o qualcuno;
  • Sorpresa: quando accade un evento inaspettato, a cui segue felicità o paura;
  • Felicità: quando siamo soddisfatti per aver realizzato i nostri desideri;
  • Tristezza: a seguito di una perdita o di un obiettivo non raggiunto.

Tutte le altre sono dettate da educazione e struttura sociale nella quale viviamo. Per questo, in alcune zone del mondo, esistono delle emozioni che altrove non sono classificate come tali e non considerate rilevanti. Sono legate al costrutto sociale di un determinato luogo, alla sua cultura. Questo è un ulteriore fattore che rende difficile definire con esattezza cosa siano le emozioni e soprattutto quali siano.
Viene da chiedersi, a questo punto, perché proviamo emozioni? A cosa ci servono?

Il filtro per capire le nostre priorità

Abbiamo capito che le emozioni sono innate, almeno una parte di esse. Ciò vuol dire che è quasi automatico provarle, ma è bene sottolineare che provare rabbia, felicità, tristezza, ecc. ci costa energia. Ma allora, perché proviamo emozioni che sono così costose per il nostro organismo? 
Al di là delle diverse interpretazioni, il dato oggettivo esiste e dipende dalla struttura del nostro cervello. Qualsiasi stimolo che riceviamo dall’esterno, viene recepito per prima cosa dal cosiddetto cervello rettiliano. È la zona più profonda del nostro cervello, e raccoglie le sensazioni per attivare delle reazioni fisiologiche. Per esempio, se sentiamo freddo il nostro organismo comincia a pompare più sangue per aumentare la pressione. Non ha a che fare quindi con un’elaborazione, ma con un meccanismo fisiologico di domanda - risposta. 
Rapidissimamente, ciò che passa dal cervello rettiliano è trasmesso alla zona di mezzo del nostro cervello, quella che ci restituisce ciò che noi chiamiamo emozione. È opportuno ricordare che emozione deriva dall’etimologia latina e-movère, che letteralmente significa portare al di fuori. Ci suggerisce quindi che è una tendenza all’azione, una reazione a un impulso esterno. Se ci troviamo in un bosco e sentiamo dei rumori tra i cespugli, probabilmente proveremo paura e avremo una reazione di allontanamento per salvarci. In quel momento non siamo comunque in grado di capire il motivo di quella emozione e, di conseguenza, dell’azione che ci provoca. Le persone intorno a noi sono in grado di capire subito la nostra reazione, vedendoci, ma perché noi la comprendiamo è necessario un altro passaggio. 
Il processo di elaborazione avviene quando le informazioni passano alla nostra corteccia cerebrale. Questa è la fase in cui da emozione passiamo a sentimento, in cui la corteccia ci mette in grado di comprendere il contenuto dell’emozione provata. Capire la reazione allo stimolo significa mettere a fuoco il bisogno a cui rispondiamo. Per questo è il momento che ci serve per capire di più di noi stessi, per soffermarci e chiederci come ci siamo sentiti, che sensazione ed emozione abbiamo provato come risposta a un determinato evento. Questo e solo questo è il modo per comprendere cosa è importante per noi, il nostro personale filtro che ci restituisce le nostre vere priorità. 
Per questa ragione questo è il livello su cui lavorano il counselling e la mediazione familiare: l’obiettivo è renderci consapevoli delle nostre emozioni come mezzo per conoscerci meglio. Conoscendo le nostre emozioni possiamo arricchire la nostra esperienza e avere una maggiore conoscenza dei nostri meccanismi interni, di chi siamo veramente.

 

L’intelligenza emotiva come arma di consapevolezza

Non siamo sempre incoraggiati a fermarci per sentire cosa ci dicono le nostre emozioni. Proprio perché prenderci tempo per ascoltarci non è cosa da poco, dovremmo chiederci più spesso come ci sentiamo. Ogni emozione ha una sua funzione adattiva, cioè ci serve per l’adattamento al contesto e alle situazioni che viviamo. Non si tratta quindi di una parte effimera di noi, ma di una sfera che ci ha permesso di evolverci e far sopravvivere la specie. 
Avere consapevolezza delle nostre emozioni significa saperci comportare nella società in cui viviamo, conoscere i nostri limiti e i nostri punti di forza, per affrontare al meglio la complessità che ci circonda, guidati dalla nostra intelligenza emotiva. 

Raggiungere i nostri obiettivi grazie alle emozioni

Secondo Daniel Goleman, l’intelligenza emotiva è “… la capacità di motivare se stessi, di persistere nel perseguire un obiettivo nonostante le frustrazioni, di controllare gli impulsi e rimandare la gratificazione, di modulare i propri stati d’animo evitando che la sofferenza ci impedisca di pensare, di essere empatici e sperare.”.

L’intelligenza emotiva è un insieme di 5 competenze fondamentali:

  • Consapevolezza: quando siamo capaci di riconoscere un sentimento. È un’attenzione alla propria esperienza che ci permette di gestire meglio le situazioni della vita.
  • Autocontrollo: quando controlliamo i nostri sentimenti positivi o negativi, in modo che siano in equilibrio tra loro e appropriati alla situazione.
  • Motivazione: quando sappiamo gestire le nostre emozione al fine di raggiungere un obiettivo per noi importante.
  • Abilità sociali: quando riusciamo a comprendere le dinamiche che legano le persone che ci stanno intorno, grazie ad altre due competenze come empatia e autocontrollo.
  • Empatia: quando siamo in grado di leggere le nostre emozioni e, di conseguenza, quelle degli altri. In questo modo siamo in grado di stabilire un contatto più profondo con chi ci sta intorno e relazioni migliori.

Coltivare tutte queste competenze è ciò che ci farà entrare in contatto con noi stessi, capire i nostri reali bisogni, capire le relazioni che ci circondano e per questo, essere capaci di raggiungere i nostri obiettivi. 
Il counselling e la mediazione familiare puntano a incentivare lo sviluppo di queste competenze nei clienti. Attraverso queste i clienti sono in grado di trovare le risorse necessarie per affrontare i problemi e le complessità. La consapevolezza di se stessi e dei legami con gli altri si rivela quindi una chiave importantissima per il raggiungimento dei propri obiettivi.

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